Decameron di Giovanni Boccaccio Decima Giornata Novella 8.
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Avvenne, dopo alquanti mesi, che gli amici di Gisippo e i parenti furon con lui e insieme con Tito il confortarono a tor moglie: e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e di nobilissimi parenti discesa e cittadina d'Atene, il cui nome era Sofronia, d'età forse di quindici anni. E appressandosi il termine delle future nozze, Gisippo pregò un dí Tito che con lui andasse a vederla, ché veduta ancora non l'avea; e nella casa di lei venuti e essa sedendo in mezzo d'amenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo amico, la cominciò attentissimamente a riguardare; e ogni parte di lei smisuratamente piacendogli, mentre quelle seco sommamente lodava sí fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s'accese quanto alcuno amante di donna s'accendesse già mai; ma poi che alquanto con lei stati furono, partitisi, a casa se ne tornarono. Quivi Tito, solo nella sua camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto piú accendendosi quanto piú nel pensier si stendea: di che accorgendosi, dopo molti caldi sospiri seco cominciò a dire: «Ahi! misera la vita tua, Tito! Dove e in che pon tu l'animo e l'amore e la speranza tua? or non conosci tu, sí per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua famiglia e sí per la intera amicizia la quale è tra te e Gisippo, di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in quella reverenza che sorella? che dunque ami? dove ti lasci transportare allo 'ngannevole amore? dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello 'ntelletto e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo alla ragione, raffrena il concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani e a altro dirizza i tuoi pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine e vinci te medesimo mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene che tu vuogli, questo non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo di giugnerlo, che non se', tu il dovresti fuggire, se quello riguardassi che la vera amistà richiede e che tu dei. Che dunque farai, Tito? Lasciarai lo sconvenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene». E poi, di Sofronia ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava dicendo: «Le leggi d'amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono non che quelle della amistà ma le divine. Quante volte ha già il padre la figliuola amata, il fratello la sorella, la matrigna il figliastro? Cose piú monstruose che l'uno amico amar la moglie dell'altro, già fattosi mille volte. Oltre a questo io son giovane, e la giovanezza è tutta sottoposto all'amorose leggi: quello adunque che a amor piace a me convien che piaccia. L'oneste cose s'appartengono a' piú maturi: io non posso volere se non quello che amor vuole. La bellezza di costei merita d'essere amata da ciascheduno; e se io l'amo, che giovane sono, chi me ne potrà meritamente riprendere? Io non l'amo perché ella sia di Gisippo, anzi l'amo che l'amerei di chiunque ella stata fosse. Qui pecca la fortuna che a Gisippo mio amico l'ha conceduta piú tosto che a un altro; e se ella dee essere amata, che dee e meritamente per la sua bellezza piú dee esser contento Gisippo, risappiendolo, che io l'ami io che un altro». E da questo ragionamento faccendo beffe di se medesimo tornando in sul contrario, e di questo in quello e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente consumò, ma piú altri, in tanto che, il cibo e 'l sonno perdutone, per debolezza fu constretto a giacere. Gisippo, il qual piú dí l'avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva forte e con ogni arte e sollicitudine, mai da lui non partendosi, s'ingegnava di confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de' suoi pensieri e della infermità; ma avendogli piú volte Tito dato favole per risposta e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito constrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa: «Gisippo, se agli dii fosse piaciuto, a me era assai piú a grado la morte che il piú vivere, pensando che la fortuna m'abbi condotto in parte che della mia virtú mi sia convenuto far pruova e quella con grandissima vergogna di me truovi vinta; ma certo io n'aspetto tosto quel merito che mi si conviene, cioè la morte, la qual mi fia piú cara che il vivere con rimembranza della mia viltà, la quale, per ciò che a te né posso né debbo alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò». E cominciatosi da capo, la cagion de' suoi pensieri e' pensieri e la battaglia di quegli e ultimamente de' quali fosse la vittoria e sé per l'amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che, conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenzia n'avea preso il voler morire, di che tosto credeva venire a capo. Gisippo, udendo questo e il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette, sí come quegli che del piacere della bella giovane, avvegna che piú temperatamente, era preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico piú che Sofronia dovergli esser cara, e cosí, dalle lagrime di lui al lagrimare invitato, gli rispose piangendo: «Tito, se tu non fossi di conforto bisognoso come tu se', io di te a te medesimo mi dorrei, sí come d'uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sí lungamente la tua gravissima passione nascosa. E come che onesto non ti paresse, non son per ciò le disoneste cose se non come l'oneste da celare all'amico, per ciò che chi amico è, come delle oneste con l'amico prende piacere, cosí le non oneste s'ingegna di torre dello animo dello amico; ma ristarommene al presente e a quel verrò che di maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io non me ne maraviglio, ma maraviglierem'io ben se cosí non fosse, conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell'animo tuo, atta tanto piú a passion sostenere quanto ha piú d'eccellenza la cosa che piaccia. E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della fortuna ti duoli, quantunque tu ciò non esprimi, che a me conceduta l'abbia, parendoti il tuo amarla onesto se d'altrui fosse stata che mia. Ma se tu se' savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu piú l'avessi a render grazie che d'averla a me conceduta? Qualunque altro avuta l'avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l'avrebbe egli a sé amata piú tosto che a te, il che di me, se cosí mi tieni amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è questa, che io non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che cosí non fosse tua come mia. Il che, se tanto fosse la cosa avanti che altramenti esser non potessi, cosí ne farei come dell'altre; ma ella è ancora in sí fatti termini, che di te solo la posso fare e cosí farò, per ciò che io non so quello che la mia amistà ti dovesse esser cara, se io d'una cosa che onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler far tuo. Egli è il vero che Sofronia è mia sposa e che io l'amava molto e con gran festa le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sí come molto piú intendente di me, con piú fervor disideri cosí cara cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia, richiama la perduta santà e il conforto e l'allegrezza, e da questa ora innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto piú degno amore che il mio non era». Tito, udendo cosí parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto piú era di Gisippo la liberalità tanto di lui a usarla pareva la sconvenevolezza maggiore; per che, non ristando di piagnere, con fatica cosí gli rispose: «Gisippo, la tua liberale e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga di fare. Tolga via Iddio che mai colei, la quale Egli sí come a piú degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se Egli avesse veduto che a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta l'avesse. Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo dono, e me nelle lagrime, le quali Egli sí come a indegno di tanto bene m'ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena». Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. Al quale Gisippo disse: «Tito, se la nostra amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un mio piacer ti sforzi e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello in che io sommamente intendo d'usarla: e dove tu non condiscenda piacevole a' prieghi miei, con quella forza che ne' beni dello amico usar si dee farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d'amore e so che elle non una volta ma molte hanno a infelice morte gli amanti condotti; e io veggio te sí presso, che tornare adietro né vincere potresti le lagrime ma procedendo vinto verresti meno: al quale io senza alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t'amassi, m'è acciò che io viva cara la vita tua. Sarà adunque Sofronia tua, ché di leggiere altra che cosí ti piacesse non troverresti; e io, il mio amore leggiermente a un'altra volgendo, avrò te e me contentato. Alla qual cosa forse cosí liberal non sarei, se cosí rade o con quella difficultà le mogli si trovasser che si truovan gli amici: e per ciò, potend'io leggerissimamente altra moglie trovare ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo' dir perder lei, ché non la perderò dandola a te, ma a un altro me la transmuterò di bene in meglio) transmutarla che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, a una ora consoli te e me e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia che il tuo caldo amore della cosa amata disidera». Come che Tito di consentire a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse e per questo duro stesse ancora, tirandolo da una parte amore e d'altra i conforti di Gisippo sospignendolo, disse: «Ecco, Gisippo, io non so quale io mi dica che io faccia piú, o il mio piacere o il tuo, faccendo quello che tu pregando mi di' che tanto ti piace; e poi che la tua liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non conosca me da te ricever non solamente la donna amata ma con quella la vita mia. Facciano gl'iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me, piú pietoso di me che io medesimo, adoperi». Appresso queste parole disse Gisippo: «Tito, in questa cosa, a volere che effetto abbia, mi par da tenere questa via. Come tu sai, dopo lungo trattato de' miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia sposa, e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e' miei parenti. Di che niente mi curerei se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno prestamente a un altro, il qual forse non sarai desso tu, e cosí tu avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti, e sí come mia me la meni a casa e faccia le nozze; e tu poi occultamente, sí come noi saprem fare, con lei sí come con tua moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale se lor piacerà, bene starà, se non piacerà, sarà pur fatto, e, non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien contenti». Piacque a Tito il consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette, essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito e andar via. Era la camera di Tito a quella di Gisippo congiunta e dell'una si poteva nell'altra andare: per che, essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente andatosene gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare. Tito vedendo questo, vinto da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con intero animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane quasi come sollazzando chetamente la domandò se suo moglie esser voleva. Ella, credendo lui esser Gisippo, rispose di sí; ond'egli un bello e ricco anello le mise in dito dicendo: «E io voglio esser tuo marito». E quinci consumato il matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai s'accorgesse che altro che Gisippo giacesse con lei. Stando adunque in questi termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio
suo padre di questa vita passò: per la qual cosa a lui fu scritto che senza
indugio a vedere i fatti suoi a Roma se ne tornasse, e per ciò egli d'andarne e
di menarne Sofronia diliberò con Gisippo; il che, senza manifestarle come la
cosa stesse, far non si dovea né poteva acconciamente. Laonde, un dí nella
camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di ciò
Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual, poi che
l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente cominciò a
piagnere sé dello 'nganno di Gisippo ramaricando: e prima che nella casa di
Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò a casa il padre suo e quivi a lui
e alla madre narrò lo 'nganno il quale ella e eglino da Gisippo ricevuto
avevano, affermando sé esser moglie di Tito e non di Gisippo come essi
credevano. Questo fu al padre di Sofronia gravissimo, e co' suoi parenti e con
que' di Gisippo ne fece una lunga e gran querimonia, e furon le novelle e le
turbazion molte e grandi. Gisippo era a' suoi e a que' di Sofronia in odio, e
ciascun diceva lui degno non solamente di riprensione ma d'aspro gastigamento.
Ma egli sé onesta cosa aver fatta affermava e da dovernegli esser rendute grazie
da' parenti di Sofronia, avendola a miglior di sé maritata. Poi che Tito cosí ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per mano, mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello crollando la testa e minacciando s'uscí. Quegli che là entro rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà indotti e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia diliberarono essere il migliore d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito per nemico acquistato. Per la qual cosa andati, ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d'aver lui per caro parente e Gisippo per buono amico: e fattasi parentevole e amichevole festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono; la quale, sí come savia, fatta della necessità vertú, l'amore il quale aveva a Gisippo prestamente rivolse a Tito, e con lui se n'andò a Roma, dove con grande onore fu ricevuta. Gisippo, rimasosi in Atene quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo per certe brighe cittadine con tutti quegli di casa sua povero e meschino fu d'Atene cacciato e dannato a essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo e divenuto non solamente povero ma mendico, come poté il men male a Roma se ne venne per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i roman grazioso e le sue case apparate, dinanzi a esse si mise a star tanto che Tito venne. Al quale egli per la miseria nella quale era non ardí di far motto ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito ricognoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito e a Gisippo parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartí. E essendo già notte e esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, piú che d'altro di morir disideroso, s'avenne in un luogo molto salvatico della città: dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto, s'adormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte andati a imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino e a quistion venuti, l'uno, che era piú forte, uccise l'altro e andò via. La qual cosa avendo Gisippo sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi egli stesso, aver trovata via; e per ciò senza partirsi tanto stette che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto morire in croce, sí come allora s'usava. Era Tito per ventura in quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo e maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e gridò: «Marco Varrone, richiama il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è innocente: io ho assai con una colpa offesi gl'iddii uccidendo colui il quale i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte d'un altro innocente offendergli». Varrone si maravigliò e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non potendo con suo onore ritrarsi da far quello che comandavan le leggi, fece indietro ritornar Gisippo e in presenzia di Tito gli disse: «Come fostú sí folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso». Gisippo guardò e vide che colui era Tito e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute, sí come grato del servigio già ricevuto da lui; per che, di pietà piagnendo, disse: «Varrone, veramente io l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda». Tito d'altra parte diceva: «Pretore, come tu vedi, costui è forestiere e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire: e per ciò liberalo, e me, che l'ho meritato, punisci». Maravigliossi Varrone della instanzia di questi due e già presummeva niuno dovere esser colpevole; e pensando al modo della loro absoluzione, e ecco venire un giovane, chiamato Publio Ambusto, di perduta speranza, e a tutti i romani notissimo ladrone, il quale veramente l'omicidio avea commesso; e conoscendo niuno de' due esser colpevole di quello di che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion mosso, venne dinanzi a Varrone e disse: «Pretore, i miei fati mi traggono a dover solvere la dura question di costoro, e non so quale idio dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare: e per ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascun se medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul dí; e questo cattivello che qui è là vid'io che si dormiva mentre che io i furti fatti dividea con colui cui io uccisi. Tito non bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto lui non essere uomo di tal condizione: adunque liberagli e di me quella pena piglia che le leggi m'impongono». Aveva già Ottaviano questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion movesse ciascuno a volere essere il condennato; la quale ciascun narrò. Ottaviano li due per ciò che erano innocenti e il terzo per amor di lor liberò. Tito, preso il suo Gisippo e molto prima della sua tiepidezza e diffidenza ripresolo, gli fece maravigliosa festa e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con pietose lagrime il ricevette come fratello. E ricreatolo alquanto e rivestitolo e ritornatolo nell'abito debito alla sua vertú e gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune e appresso una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per moglie; e quindi gli disse: «Gisippo, a te sta omai o il volere qui appresso di me dimorare o volerti con ogni cosa che donata t'ho in Acaia tornare». Gisippo, costrignendolo da una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano s'accordò; dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in una casa gran tempo e lietamente vissero, piú ciascun giorno, se piú potevano essere, divenendo amici. Santissima cosa adunque è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna ma d'essere con perpetua laude commendata, sí come discretissima madre di magnificenzia e d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e d'odio e d'avarizia nemica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato; li cui sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggiono in due, colpa e vergogna della misera cupidigia de' mortali, la qual solo alla propria utilità riguardando ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio perpetuo rilegata. Quale amore, qual richezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e' sospiri di Tito con tanta efficacia fatte a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei? Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovenili braccia di Gisippo ne' luoghi solitari, ne' luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della bella giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei? Quali stati, quai meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de' disonesti mormorii del popolazzo, non curar delle beffe e degli scherni per sodisfare all'amico, se non costei? E d'altra parte, chi avrebbe Tito senza alcuna diliberazione, possendosi egli onestamente infignere di vedere, fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo patrimonio con Gisippo al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei? Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propria sorella a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estre na miseria posto, se non costei? Disiderino adunque gli uomini la moltitudine de' consorti, le turbe de' fratelli e la gran quantità de' figliuoli e con gli lor denari il numero de' servidori s'acrescano; e non guardino, qualunque s'è l'un di questi, ogni menomo suo pericolo piú temere che sollecitudine aver di tor via i grandi del padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede all'amico. Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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